Le pratiche commerciali scorrette in danno del consumatore quale parte debole del rapporto contrattuale
Con l’avvento nell’ultimo decennio della crescita delle interazioni economiche, sociali e culturali dovute principalmente ai fenomeni della globalizzazione, dell’e-commerce nonché della possibilità di concludere contratti semplicemente con un click (c.d. contratti point and click) la dottrina e la giurisprudenza contemporanea hanno avvertito la necessità di adeguare la disciplina generale del contratto di cui agli artt. 1322 ss c.c. alla realtà concreta ed effettiva in cui il soggetto o l’organizzazione plurisoggettiva svolge la propria vita di relazione o la propria attività organizzativa.
Si è provveduto, allora, a delineare la categoria dei “contratti c.d. asimmetrici” ovvero quei contratti, quali ad esempio i contratti del consumatore, i contratti tra professionisti o i contratti tra imprese, in cui la parti oggetto dello schema contrattuale sono fisiologicamente asimmetriche per forza negoziale, possibilità informativa, economica o relazionale[1].
In particolare, l’asimmetria si atteggia in maniera differente a seconda della qualifica della parte contrattuale e, infatti, nel caso in cui il contraente debole sia il consumatore, l’asimmetria è di tipo prettamente informativo, all’opposto, nel caso in cui sia l’imprenditore ad essere la parte “debole” del rapporto contrattuale, l’asimmetria sarà di tipo prettamente economico, in quanto si farà riferimento alla posizione dello stesso nelle operazioni commerciali, ovvero alla mancanza di alternative che il mercato offre al soggetto per poter scegliere liberamente con chi e come negoziare.
Ciò posto, la differenziazione del concetto di asimmetria, a seconda che la parte debole sia un consumatore o un imprenditore presuppone, dirimente, che anche le modalità di accertamento dello stesso vari a seconda della qualifica rivestita dai soggetti all’interno della dinamica contrattuale.
Nello specifico, i contratti del consumatore, trattandosi generalmente di contratti istantanei, muovono dalla qualificazione formale delle parti, e cioè dalla debolezza strutturale e presunta del consumatore, diversamente i contratti tra imprenditori, che il più delle volte sono contratti di durata, si imperniano su criteri e modalità volti ad accertare in concreto il carattere “debole” di una delle parti contrattuali[2].
Il quadro normativo di riferimento
L’avvento dei contratti di massa ha fatto emergere, all’interno della disciplina contrattualistica moderna, la categoria del contraente debole, ovvero del soggetto che riveste una posizione contrattuale intrinsecamente inferiore rispetto a quella della controparte che, all’opposto, ha di fatto il potere di regolare liberamente ed unilateralmente gli aspetti del contratto.
L’intervento comunitario più significativo, volto alla necessità di tutelare gli interessi di un soggetto considerato “debole” dal nostro ordinamento, in quanto impossibilitato ad influire sul contenuto contrattuale che lo vede coinvolto, è rappresentato dalla Direttiva 93/13/CE in materia di clausole abusive inserite nei contratti tra consumatore e professionista[3] che ha portato all’introduzione, all’interno del nostro codice civile, di un apposito capo intitolato “Dei contratti del consumatore” ex artt. 1469-bis ss. c.c.
In seguito, il moltiplicarsi delle Direttive comunitarie, tra cui si ricordi la Direttiva 99/44/CE relativa alla vendita di beni di consumo che trova il suo riverbero negli artt. 1519-bis ss. c.c., insieme alle altrettante norme di recepimento, ha fatto sì che emergesse ancor di più l’esigenza di procedere ad un riassetto delle disposizioni vigenti in materia di tutela del consumatore.
Il legislatore, pertanto, stante sia la sempre più centralità della disciplina di riferimento all’interno della contrattualistica moderna, nonché la necessità di rendere più agevolmente conoscibile la normativa consumeristica bypassando, in tal modo, le numerose stratificazioni normative, con il D.Lgs. n. 206/2005 ha introdotto nel nostro ordinamento il Codice del consumo al cui interno sono confluite non solo le norme contenute nelle singole leggi speciali, ma anche le disposizioni di carattere generali che, originariamente, trovavano collocazione all’interno del Codice civile.
Nello specifico, si tratta di un corpus di regole organicamente coordinate ed incentrate a disciplinare sia i rapporti specifici tra consumatore e professionista sia tutte le clausole contrattuali ad essi collegati, anche se non integranti condizioni generali di contratto.
Detto altrimenti, anche a seguito delle rilevanti modifiche operate dagli interventi legislativi, nazionali e comunitari[4], il Codice, disciplinando sia la fase precedente all’instaurazione del rapporto contrattuale (Es.: l’art. 4 del Codice disciplina l’educazione del consumatore) sia la fase ad essa successiva (Es.: gli artt. 102 e ss. si incentrano sulla sicurezza e qualità dei prodotti e dei servizi) si pone in completamento delle regole già esistenti in tema di tutela del contraente “debole” e non in alternativa alle stesse.
Le clausole vessatorie: definizione e cenni
La normativa sui contratti del consumatore definisce, all’art. 33 del Cod. cons., come vessatorie le clausole che “malgrado buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”
La dottrina, proprio in relazione alla locuzione “malgrado buona fede”, ha a lungo discusso se tale concetto debba leggersi in senso soggettivo o, all’opposto, in un’accezione squisitamente oggettiva.
Secondo un primo orientamento[5], perlopiù minoritario, la buona fede ex art. 33 Cod. cons., deve leggersi come buona fede soggettiva del professionista, nel senso che la declaratoria di abusività può essere effettuata anche in presenza di buona fede dello stesso, in quanto si prescinde dall’eventuale ignoranza del predisponente circa lo squilibrio generato in danno del consumatore.
Diversamente, l’orientamento maggioritario[6], propendendo per una lettura della buona fede in senso oggettivo, rilegge la locuzione dell’art. 33 Cod. cons. come “in contrasto con l’obbligo di correttezza”.
A supporto di tale interpretazione si noti, anche in virtù della traduzione apposta dagli altri ordinamenti alla Direttiva n. 13 del 1993[7], che l’interpretazione della buona fede come precetto di condotta non comporta alcune attenuazione della tutela del consumatore, non imponendogli o aggravandogli alcun onere probatorio.
Ancora, come precisato dal Consiglio di Stato[8], il duplice riferimento alla buona fede ed al significativo squilibrio va inteso come una sorta di “endiadi rafforzata”, poiché il significativo squilibrio non è altro che una figura sintomatica della contrarietà del contratto al principio di buona fede.
Inoltre, il significativo squilibrio che connota la vessatorietà non attiene alle determinazioni dell’oggetto e del corrispettivo in quanto la normativa sui contratti del consumatore ha, infatti, inteso rimettere tali determinazioni al giuoco del libero mercato e della concorrenza restando, comunque, fermo l’onere a carico del professionista non solo di formularli in modo chiaro e comprensibile ma anche di renderli oggetto di una trattativa individuale, e cioè quale risultato di una negoziazione effettiva e seria tra le parti.
Ciò posto, il legislatore, all’interno degli artt. 33 co. 2 e 36 co. 2 del Cod. cons., ha previsto, al fine di agevolare l’accertamento della gravosità delle stesse, sia un elencazione di clausole, descritte ed enucleate in relazione all’oggetto o all’effetto che producono, la cui vessatorietà è presunta fino a prova contraria (c.d. “lista grigia”)[9], sia un’elencazione di tre tipologie di clausole (c.d. “lista nera”)[10] che, invece, sono nulle[11] anche se oggetto di trattativa individuale.
La presenza della c.d. lista grigia agevola non poco il compito del giudice che, ove accerti che la clausola contestata sia riconducibile ad una tipologia presente nella suddetta lista, ne dichiara direttamente la nullità, senza soffermarsi né sul significativo squilibrio, né sulla contrarietà alla buona fede.
Viceversa, in caso di clausola non riconducibile al suddetto elenco, spetterà al consumatore l’onere di provare che la clausola contestata determina un significativo squilibrio, poiché in tal caso non si applica l’inversione dell’onere probatorio.
Ciò è possibile, in quanto, si tratta di un’elencazione non tassativa, con la conseguenza che il consumatore potrà comunque, ai fini dell’applicazione della tutela consumeristica, provare che una clausola non legislativamente tipizzata produca in concreto un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dall’intero contratto.
Infine, si deve precisare che la valutazione della vessatorietà interessa l’operazione negoziale complessivamente intesa, in quanto la presenza di una clausola squilibrante a carico del consumatore può essere compensata dall’inserimento di una clausola allo stesso favorevole nel medesimo contratto o in altro contratto collegato o da esso dipendente.
Il principio di trasparenza
Come espressamente sancito dall’art. 35 del Cod. cons. le clausole contrattuali devono essere formulate dal professionista in modo chiaro e comprensibile.
Questa previsione esplica, all’interno del Codice del consumo, un principio già sotteso all’art. 1341 c.c. il quale appronta, a carico del predisponente, l’onere di rendere conoscibile al soggetto aderente, attraverso l’ordinaria diligenza, il contenuto delle condizioni generali di contratto.
Chiarezza e comprensibilità sono termini che evocano due esigenze distinte e, infatti, le clausole devono essere redatte, da un lato, in modo non equivoco, e dall’altro, devono essere espresse in una lingua conosciuta alla controparte, risultare leggibili dal punto di vista grafico e non contenere espressioni tecniche o specialistiche il cui significato possa essere oscuro per coloro che non hanno una particolare competenza nel settore di riferimento.
Analogamente a quanto previsto in tema di condizioni generali di contratto, le clausole ambigue vanno interpretate nel significato più favorevole al consumatore mentre quelle insuscettibili di essere comprese da una persona di media capacità o intelligenza devono ritenersi prive di efficacia nei confronti del consumatore.
In caso di condizioni eccessivamente onerose per violazione degli obblighi di chiarezza e comprensibilità il codice consente al giudice di sindacare non sono l’equilibrio normativo del contratto ma anche quello economico, riconducendolo ad equità.
Ancora, l’art. 35 Cod. cons. sancisce, poi, l’inapplicabilità del criterio dell’interpretatio contra stipulatiorem nei casi di cui all’art. 37 dello stesso codice.
Detto altrimenti, attraverso lo strumento dell’inibitoria contrattuale risulta possibile impedire al professionista l’utilizzo di clausole non redatte in modo chiaro e comprensibile, anche laddove siano suscettibili di essere interpretate in senso favorevole al consumatore.
Infine, i confini del principio in esame sono stati ulteriormente ampliati per effetto del D.Lgs. n. 21/2014 il quale, in attuazione della Direttiva 2011/83/UE, ha incrementato ancor di più il novero degli obblighi informativi.
Le nuove regole si riferiscono, principalmente, ai contratti a distanza stipulati on-line o con qualsiasi mezzo di comunicazione ovvero quando non vi è la presenza fisica e simultanea delle parti e i contratti sono effettuati fuori dai locali commerciali.
Principalmente il D.Lgs. ha previsto, da una parte, un aggravio dell’obbligo di informativa precontrattuale per ciò che concerne l’identità del professionista, le caratteristiche del prodotto o del servizio, per le modalità di pagamento e di garanzia a favore del consumatore e, dall’altro, l’aggiunta del diritto di ripensamento e di restituzione del prodotto, ovvero la possibilità per il consumatore di recedere dal contratto entro 14 giorni senza addurre nessuna motivazione e di restituire il prodotto, anche se deteriorato, venendo ritenuto responsabile soltanto per la diminuzione del suo valore.
La tutela generale avverso le clausole vessatorie: l’azione inibitoria
Importantissima novità introdotta nella disciplina dei contratti del consumatore è la possibilità di esperire l’azione inibitoria ex art. 37 Cod. cons., al fine di rimuovere le clausole abusive dai formulari delle condizioni generali di contratto.
L’azione, nello specifico, si caratterizza come un rimedio collettivo in quanto non tutela il consumatore quale parte di un determinato contratto ma tutela tutti i destinatari delle condizioni generali di contratto, ovvero la generalità dei soggetti i cui rapporti contrattuali sono destinati ad essere regolati da quelle disposizioni generali predisposte dal professionista.
Si mira, pertanto, ad ottenere dal giudice una pronuncia con cui lo stesso ordini all’operatore professionale convenuto di astenersi dall’utilizzazione di clausole delle quali sia stata positivamente accertata la vessatorietà, nell’ambito del contesto globale del regolamento contrattuale dei rapporti con i consumatori, già instaurati o futuri.
Coerentemente con il suo carattere collettivo l’azione inibitoria è esercitabile non dal singolo consumatore ma dalle associazioni rappresentative degli stessi o dei professionisti[12] nonché dalle camere di commercio.
La legittimazione attiva delle associazioni dei professionisti trova la sua ratio in quanto le condizioni generali abusive ledono non solo i consumatori ma altresì i professionisti del settore, i quali possono essere svantaggiati dalla presenza sul mercato di un concorrete che si avvale di un regolamento contrattuale abusivamente più favorevole e, pertanto, dannoso per gli stessi.
Ancora, l’azione inibitoria può essere concessa anche in via cautelare ex art. 37 co. 2 Cod. cons., ovvero in una fase in cui la condotta del professionista non ha ancora arrecato alcun danno al consumatore, sempre se ricorrano i giusti motivi di urgenza ex art. 669-bis ss. c.p.c.
Il carattere evanescente della locuzione “giusti motivi di urgenza” ha creato non pochi problemi interpretativi in quanto, veniva ravvisata sia nell’importanza dell’interesse minacciato e nella irreparabilità del danno subito dal consumatore sia nell’ampiezza di diffusione delle clausole in altre serie di contratti simili[13].
Tali interpretazioni, come ravvisato da importante dottrina[14], appaiono riduttive, posto che le clausole vessatorie sono di per sé suscettibili di provocare un rilevante danno sociale e reclamano, pertanto, un tempestivo rimedio cautelare.
I giusti motivi di urgenza sono praticamente in re ipsa e, infatti, il requisito del pericolo mancherebbe, del resto, solo in ipotesi marginali quali, ad esempio, in caso di condizioni generali di contratto sospese o che siano a destinate a produrre effetto in un futuro non prossimo.
Oltre alla tutela inibitoria, il legislatore ha inserito, con il Decreto c.d. liberalizzazioni 1/2001, nel corpo del Codice del consumo, l’art. 37-bis, predisponendo un ulteriore strumento di controllo del carattere vessatorio delle clausole, di tipo amministrativo e non giurisdizionale.
La norma, infatti, dispone che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcom), d’ufficio o su denuncia, dopo aver sentito le associazioni di categoria rappresentative a livello nazionale e le camere di commercio interessate, dichiara la vessatorietà di siffatte clausole anche attraverso la pubblicazione su apposite sezioni del sito internet istituzionale dell’Autorità.
Infine, la norma, contempla la facoltà, non di poco conto, per le imprese di interpellare preventivamente l’Autorità in merito alla vessatorietà delle clausole che intendono utilizzare nei rapporti commerciali con i consumatori, approntando, quindi, una tutela preventiva alle stesse nell’ottica di arginare un possibile squilibrio.
L’azione di classe
Attraverso la legge finanziaria del 2008 e successivamente con la L. n. 99/2009, il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento, per il tramite dell’art. 140-bis Cod. cons., l’azione collettiva risarcitoria a tutela dei consumatori c.d. class action.
Tale strumento ha la finalità di aumentare le forme di tutela degli interessi dei consumatori, consentendo alle associazioni di categoria di agire ben oltre gli ambiti delineati dall’art. 140 Cod. cons., potendo richiedere il risarcimento del danno e la restituzione delle somme loro spettanti.
Il nuovo testo ha significativamente innovato la struttura della legittimazione attiva; infatti, oltre a stabilire che gli interessi coinvolti devono essere omogenei e che la promozione di un’azione collettiva rende impossibile l’instaurazione di analogo procedimento anche in altra sede giurisdizionale, si prevede un duplice accesso alla class action, ovvero individuale e collettivo, che limita in ogni caso l’ambito di applicazione dell’azione ai soli consumatori.
Le modifiche, in particolare, hanno ampliato la reattività del consumatore che non deve più necessariamente rivolgersi ad un’associazione di categoria a livello nazionale, com’era originariamente previsto, ma può agire individualmente ovvero farsi promotore della costituzione di un’associazione ad hoc per la tutela di interessi diffusi oppure promuovere l’azione attraverso un’associazione o un comitato già preesistente, che intenda farsi promotore di un’azione di classe.
Va da sé, allora che, il legislatore, attraverso le modifiche avvenuta nel 2009 ha voluto strutturare un’azione giudiziaria più forte e concreta, stante la possibilità da parte del consumatore di poter richiedere non solo l’accertamento ma anche la condanna dei danni e le eventuali restituzioni.
Dunque, sebbene sia improntata sul modello delle class action statunitense l’art. 140-bis Cod. cons. ha una portata applicativa molto più ridotta, in quanto prevede unicamente la tutela risarcitoria e non quella sanzionatoria tipica dei punitive damages.
La subfornitura
Attraverso la L. n. 192/2008 in tema di subfornitura, il legislatore contempla l’ipotesi in cui lo squilibrio contrattuale possa verificarsi anche nei rapporti tra imprese, riferendosi, per la prima volta, ad una situazione contrattuale ove un soggetto avente la qualifica di imprenditore rivesta anche la posizione di contrante debole.
Precisamente, la definizione codicistica della subfornitura comprende due distinte ipotesi: l’una riferita alla lavorazione dei prodotti, l’altra alla fornitura di beni e servizi.
L’importanza e la trasversalità della disciplina in commento si evince anche dall’analisi del dato normativo attraverso cui il legislatore detta particolari prescrizione per ciò che concerne la forma, la determinazione del contenuto, i termini di pagamento del subfornitore con annessa nullità al ricorrere di alcune tipiche clausole vessatorie quali, ad esempio, le clausole che attribuiscono al committente il potere di modificare unilateralmente le clausole del contratto.
A differenza dell’appalto, che è caratterizzato dall’autonomia dell’appaltatore, dal controllo e dalla sorveglianza esercitata dal committente al fine di assicurarsi che l’opera venga eseguita in conformità delle regole dell’arte, la subfornitura è invece caratterizzata dal controllo diretto ed integrale sull’esecuzione dei lavori da parte dell’impresa committente, che trasferisce al subforniture il c.d. know how inteso come patrimonio conoscitivo sul come produrre un determinato bene o servizio.
La singola previsione normativa delle due distinte ipotesi di subfornitura conferma che ci si trova al cospetto di un tipo contrattuale generale, al cui interno possono di volta in volta rientrare, all’occorrenza, i vari tipi di contratto quali ad esempio la vendita, la somministrazione, etc.
Tale peculiare caratteristica implicherà, allora, che troveranno applicazione, al caso di specie, non soltanto la disciplina generale dettata dal codice civile in tema di fornitura, ma anche la disciplina del singolo tipo di contratto, purché ciò non implichi un contrasto con la disciplina ex art. 1 e ss. della L. n. 192/1998.
L’abuso di dipendenza economica e le pratiche economiche scorrette
Particolarmente rilevante nella disciplina dello schema generale della subfornitura è l’abuso di dipendenza economica.
La subfornitura, infatti, costituisce una tipica situazione di assoggettamento economico in quanto l’attività del subfornitore è organizzata in funzione delle specifiche esigenze del committente e le prestazioni destinate a quest’ultimo non hanno altri sblocchi all’interno del mercato.
Va da sé, allora, che il rischio di un abuso di tale posizione contrattuale, con annesso squilibrio di diritti ed obblighi a vantaggio del soggetto subfornitore risulterà tutt’altro che evanescente. Proprio nell’intento di apporre delle concrete tutele, sia all’impresa subfornitrice che al committente, il legislatore ha previsto che il contratto di subfornitura deve essere stipulato in forma scritta ad substantiam.
Pertanto, qualora tale requisito non venga rispettato, non solo il contratto non redatto in forma scritta sarà nullo[15] ma, il subfornitore, avrà diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate e al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell’esecuzione del contratto.
Ancora, la tutela in capo al subfornitore viene ulteriormente rafforzata dalle prescrizioni contenute nell’art. 6 del Cod. cons. le quali prevedono la sanzione della nullità per i patti che riservino ad uno dei contraenti la facoltà di modificare unilateralmente una o più clausole del contratto, o che attribuisca ad una delle parti, in caso di esecuzione continuata o periodica, la facoltà di recesso senza congruo preavviso o che prevedano, sempre all’interno del contratto, a favore del committente e senza congruo corrispettivo, i diritti di privativa industriale o intellettuale.
Diversamente, per il committente, il co. 3 dell’art. 9 del Cod. cons. afferma la nullità di qualunque patto attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica.
La centralità della disposizione ha dato la stura ad un forte dibattito ermeneutico culminato, in seguito, con la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite[16].
La questione atteneva alla possibilità che l’abuso della dipendenza economica sia o meno applicabile anche ai contratti diversi dalla subfornitura.
Secondo un primo orientamento, c.d. restrittivo, l’art. 9 Cod. cons. deroga al principio della libertà contrattuale, conferendo al giudice poteri di natura eccezionale qual è quello di riequilibrare l’assetto del contratto. Ciò posto, ove se ne ritenesse l’applicazione al di fuori della ristretta cerchia delle subforniture, si rivelerebbero assolutamente dirompenti dei principi di comune applicazione in materia contrattuale.
Diversamente, secondo altro orientamento, c.d. estensivo, la legge n. 192/1998 ha designato, attraverso l’art. 9 Cod. cons., una norma che, data la centralità della buona fede nei rapporti precontrattuali e contrattuali, assurge a principio generale nel dirimere i possibili squilibri nelle relazioni negoziali tra imprese.
Le Sezioni Unite, adite della questione interpretativa, hanno avvalorato il secondo degli orientamenti descritti.
L’abuso di dipendenza economica, configura, seguendo il percorso argomentativo della Suprema Corte, una fattispecie di applicazione generale, che può prescindere dall’esistenza di uno specifico rapporto di subfornitura, la quale presuppone, in primo luogo, la situazione di dipendenza economica di un’impresa cliente nei confronti di una sua fornitrice e, in secondo luogo, l’abuso che viene fatto di tale posizione.
L’abuso in questione si realizza, pertanto, nell’eccessivo squilibrio di diritti e obblighi tra le parti non in un rapporto contrattuale avente i caratteri di subfornitura ma nell’ambito di rapporti commerciali regolati semplicemente da un contratto.
Infine, il legislatore, nel modificare gli artt. 18 e 19 del Cod. cons. attraverso l’art. 7 del D.L. 1/2012, ha esteso anche alle microimprese le tutele previste dal codice medesimo al singolo consumatore, persona fisica, contro le pratiche commerciali scorrette.
La previsione è destinata, dunque, a rafforzare, nell’attuale quadro economico, gli strumenti a favore delle imprese di minori dimensioni che quantitativamente non solo rappresentano la spina dorsale del nostro sistema produttivo nazionale ma che, statisticamente, risultano essere i maggiori utilizzatori degli schemi contrattuali sin qui delineati.